venerdì 20 luglio 2012

Intervista a Enzo Mari
Vittorio Zincone
(Sette – aprile 2011) 


Mari, lei non stima i suoi colleghi.
«Nani… ballerine. I designer sono i primi tra i miei nemici».
Perché?
«Il 95% è totalmente ignorante. Sono dei piccoli robot che accettano come valore solo il mercato».
«Vendo dunque sono»?
«Poi c’è un 5% che capisce, ma cinicamente accetta le distorsioni dello stesso mercato: oggetti costruiti per durare solo qualche mese… Non servono a chi li acquista, ma a chi li produce per fare profitto. È legittimo, ma non si riempiano riviste e volumi per dire che questi lavori contengono qualcosa di cui la società ha bisogno».
Non si salva nulla?
«Da trent’anni si producono oggetti di design che hanno l’unico scopo/caratteristica di sembrare diversi uno dall’altro. Nulla di nuovo».
Che caratteristiche dovrebbe avere un oggetto di design?
«Io ho sempre messo alla base della mia ricerca la bellezza della forma. E l’idea di standard».
L’idea di standard?
«Oggetti che vadano bene per tutti, anche per chi li fabbrica, e che non passeranno mai di moda».
Mi fa qualche esempio?
«Per le sedie, le Thonet. In legno curvo. Tenga presente che nel primo catalogo di quell’industria i pezzi non erano firmati».
Per i tavoli?
«Forse quelli di Alvar Aalto. Ma anche il mio Frate è uno dei più belli del secolo scorso. Sulle lampade non ho dubbi: la Toio dei fratelli Castiglioni».
Perché?
«È un’allegoria del progettare lampade. Ricavata da oggetti ready-made: un filo elettrico, il fanale di una macchina… Un oggetto merita titoli e pubblicazioni se cambia qualcosa nel fare dell’uomo. Non se è una semplice variazione sul tema».
Contro le semplici variazioni sul tema, oggi c’è l’art design. Ha presente la libreria di Ron Arad?
«Tataratatatatarata».
Come, scusi?
«Su quella roba non so che cosa dire. È show. Chi si può mettere in casa un oggetto così? Chi lo ha progettato non ama i libri. È una presa in giro. O è arte decorativa. E allora se uno si vuole mettere in casa un bell’oggetto consiglierei una riproduzione di Modigliani, o un vero Modigliani, per chi se lo può permettere. C’è anche un problema di linguaggio…».
In che senso?
«Spesso ci si lamenta perché il pubblico non capisce certi pezzi, o certi progetti architettonici… E grazie che non li capisce: la ricerca deve essere libera, ma se ogni imbecille rivendica un suo linguaggio… La firma… la firma!».
La firma dei pezzi di design è un problema?
«Lo è diventato. La botte, che si fa allo stesso modo da secoli, è un progetto anonimo. Come sono anonimi molti palazzi del centro di Milano e di Roma dove vanno a vivere gli architetti che, per gli altri, progettano e firmano obbrobri».
Lei, anche per denunciare l’ossessione del pezzo firmato, progettò Ecolo: un vaso che l’acquirente si costruiva da solo e su cui poi poteva applicare la sua firma e il marchio Alessi.
«Era anche un modo per far capire a tutti che il vaso è secondario rispetto alla composizione floreale».
Sarà stato contento il produttore dei vasi. Sbaglio o lei ha sempre avuto un rapporto abbastanza complesso con gli imprenditori?
«Il problema è che oggi tutti i grandi imprenditori realizzano oggetti solo per produrre denaro. Io con questi non ci posso lavorare. Cerco di lavorare solo con chi dimostra un po’ di passione per il progetto. Con chi si metterebbe in casa l’oggetto che produce».
Un esempio di imprenditore illuminato?
«Danese, con cui ho lavorato per anni. Gismondi (di Artemide), che ha ancora un grande laboratorio per le sperimentazioni. E Olivetti, con cui ho realizzato solo dei progetti grafici».
Oggi va molto di moda il design ecologico. Se lei fosse un giovane designer è lì che applicherebbe le sue doti?
«No. Anche perché per ogni eco-paccottiglia esistono già almeno duecento pezzi, precedenti e migliori. Se fossi giovane aprirei un negozio per vendere il meglio di quel che è stato prodotto nel mondo. Sarebbe educativo».
Educazione. Lei quanti designer ha allevato?
«Nel mio studio sono passati circa 500 ragazzi. I migliori? Quelli che avevano fatto studi umanistici».
Mari, lei è démodé. Parla di cultura umanistica nell’Italia delle tre “i”: Internet, Inglese, Impresa.
«Le tre “i” servono per creare degli zombi, dei cyborg. La cultura umanistica, invece, ti fornisce un corrimano etico che ti accompagna in tutte le scelte. Design vuol dire anche progettare per la gente, ignorando il mercato».
Progettare. Oggi i giovani designer hanno a disposizione strumenti eccezionali. Con le macchine a controllo numerico possono progettare pezzi di design in libertà. È la via giusta per rilanciare la loro creatività?
«No. È la via giusta per ucciderla».
Ma come… il designer con quelle macchine computerizzate è libero dalle imposizioni del mercato. Si può sbizzarrire.
«I computer non fanno bene al processo creativo. I nostri neuroni sono più potenti di un software. Certo, se uno ha già una cultura umanistica, la macchina può dargli una mano a sbrigare certe faccende. Ma su uno studente ventenne e demente che frequenta Architettura, l’effetto del pc può essere devastante».
Non ha una grande considerazione delle Università e degli Istituti per designer.
«Per quel che ho visto, creano spesso un vuoto di conoscenza. Ci vogliono meno scuole di specializzazione e più sapere umanistico. E poi io parto dal presupposto che la vera qualità nasce dalla fatica. Dal lavoro».
Più che dal tempo passato nelle aule?
«I giovani che non vogliono restare disoccupati dovrebbero capire l’importanza del lavoro come trasformazione. Partendo da qui, si costruisce il futuro».
Lei che studi ha fatto?
«Sono diventato un buon designer proprio perché di scuole ne ho frequentate poche. Non ho subito l’ultra parcellizzazione del sapere a cui sono sottoposti oggi i giovani. A quindici anni, a causa di una tragedia familiare, ho lasciato il liceo per fare il capofamiglia. Eravamo poveri. Da piccolo passavo le ore sulle dispense dei classici rilegate da mio padre. Mi aggiustavo i giocattoli. Ora si cresce con l’oppio dei computer e dei telefonini».
Il suo primo lavoro?
«Un cartello per pubblicizzare il vino nuovo in una osteria sotto casa».
Intendevo da designer.
«Quello è venuto tardi. Prima mi sono iscritto all’Accademia d’arte. Volevo fare il pittore. Feci un viaggio in Toscana per conoscere i maestri rinascimentali».
Il pittore/designer Max Bill scrisse, nel 1959, che era molto alta la probabilità che lei producesse opere d’arte, ma era bassissima la possibilità che venissero percepite come tali.
«A Roma, di fronte alla cappella Sistina, mi sono reso conto che non avrei mai potuto raggiungere quei livelli. E allora mi sono posto l’obiettivo di diventare il Michelangelo dei fiammiferi. Per molti anni la mia attività fu di progettare giocattoli in legno per la Rinascente».
Torniamo al primo pezzo di design.
«Forse una ciotola per Danese. Ma guardi che non sempre i miei pezzi hanno avuto successo».
Un suo oggetto che secondo lei ne avrebbe meritato di più?

«La zuccheriera/formaggiera Java. Ha presente come sono fatti i coperchi delle zuccheriere?».
Me lo spieghi lei.
«Spesso sono collegati alla base da una piccola cerniera di ferro. Beh, io progettai Java senza quella cerniera, perché volevo evitare che un operaio che aveva trascorso la giornata a incastrare pezzetti di metallo, si trovasse di fronte a quegli stessi pezzetti anche a casa».

Compagno Mari. A cena col nemico?
«Le dico il nome di un politico che ha caratteristiche tali da poter cambiare: Pier Luigi Bersani».
Lei ha un clan di amici?
 
«Ero molto amico dei Castiglioni e di Ettore Sottsass. Ora, tra i designer, non ne ho più».

Non stento a crederlo. Qual è l’errore più grande che ha fatto?

«Ne ho fatti tanti. Ma li rifarei tutti. Sono come sono anche grazie ai miei errori».

Che cosa guarda in tv?

«Film. E poi faccio molto zapping».

Il film preferito?
«Tra gli ultimi… Nuovomondo di Emanuele Crialese».

Il libro?
«La vita, istruzioni per l’uso di Georges Perec».

La canzone?

«La Marsigliese: …Allons enfants de la Patriiiiie…».
Che fa, canta? Conosce i confini della Libia?
«Egitto, Tunisia…».

Che cosa è raffigurato sui 5 centesimi?

«Non lo so».

Il Colosseo. Quanti anni ha la Costituzione?

«È del 1948, no?».

Sì. Sa che cosa è Twitter?

«No».

È un sistema di microblogging.

«Forse non ci siamo capiti. Io i computer non so nemmeno accenderli».
 

giovedì 3 maggio 2012

Confini: design e arte 
di Giovanni Anceschi

Architecture and three-dimensional art are of completely opposite natures. The former is concerned with making an area with a specific function. Architecture, whether it is a work of art or not, must be utilitarian or else fail completely. Art is not utilitarian. When three-dimensional art starts to take on some of the characteristics, such as forming utilitarian areas, it weakens its function as art. When the viewer is dwarfed by the larger size of a piece this domination emphasizes 
the physical and emotive power of the form at the expense of losing the idea of the piece. Sol Lewitt in his “Paragraphs on Conceptual Art”

A proposito delle discipline del progetto, e in particolare del design e del suo insegnamento e quindi a proposito della sua articolazione disciplinare, si propone oggi con insistenza una domanda chiave : chi fa che cosa? O meglio: a chi spetta fare che cosa, oggi?
Non è una domanda banale. E, indubbiamente, il design, è una disciplina che svolge un ruolo non irrilevante nel quadro della vita associata degli uomini. 

È una disciplina che viene insegnata nelle università di tutto il pianeta (la mappa mondiale è davvero impressionante). E da una quindicina d'anni perfino in Italia.
Ci si aspetterebbe che una disciplina e una professione come questa, caratterizzata dalla concretezza di forti risvolti pratici, sapesse con precisione “chi fa che cosa”. Ma in verità la questione non è così semplice e di questi tempi si trasforma in un’impresa conoscitiva e istitutiva davvero rilevante, per una serie di motivi, non ultimo per il suo (della disciplina e della professione) continuo espandersi in senso – potremmo dire – geopolitico e geoculturale, per il suo contaminarsi con sempre nuovi ambiti tecnologici (per es. information technologies, nanotechnologies e communication technologies) e per il suo attivismo nell’includere, coraggiosamente ma qualche volta imprudentemente, sempre nuovi settori (non solo, ad esempio, il fashion design o il public design, ma anche il food design, l’infodesign o il web design).
Dicendo questo diamo dunque per implicita una natura profondamente metamorfica della disciplina del design. Diciamo insomma che c’è tutta una "storia topografica" del design. Le mappe che ne organizzano gli ambiti di intervento, che ne definiscono i saperi e le competenze e che servono per elaborarne e manipolarne i contenuti e le pratiche, sono mutate nel tempo.


Quello che sembra di poter osservare non è però tanto uno sconvolgimento radicale con grandiosi capovolgimenti od interscambi di ruoli o posizioni. Senza aderire più di tanto a idee come quella di blur design, il fenomeno che sembra emergere è piuttosto quello di una maggiore o minore sfocatura dei confini fra gli ambiti. Sembra che le discipline fluiscano più facilmente l'una nell'altra e che si influenzino l'un l'altra.
Si sfoca, ad esempio, il margine fra design del prodotto e della comunicazione in un mondo in cui il mercato è molto anche questione di persuasione e di suasione, e nel quale i meccanismi di un mercato influenzabile si fanno pervasivi (il fashion design che si universalizza come variatore programmato del nostro corpo, il furniture design che si fa abbigliamento variabile della nostra casa, la carrozzeria automobilistica che si fa il nostro corpo giovanile di ricambio...). Con in più, ad esempio, la questione dell’interaction design, la cui annessione al proprio ambito i designer della comunicazione e quelli del product design si disputano accanitamente. E che è invece manifestamente, non tanto qualcosa di autonomo, ma di trasversale.
Queste questioni di messa a fuoco concettuale si rispecchiano ed esplicitano poi particolarmente nella terminologia. Un esempio: lo stereotipo disciplinare "comunicazioni visive" continua a persistere quando ormai non c'è quasi più nel mondo un artefatto - comunicativo o d'uso, che sia - il quale, sul piano di una coerenza categoriale minimamente plausibile, possa dichiararsi mono-sensoriale, mono-mediale, o meglio mono-modale. Per l'irruzione dei new media e in generale delle information and communication technologies, ma anche perché si ha un affermarsi di modelli, ambiti e metodologie del design che vanno oltre il design sistemico o si configurano come il design strategico, e - come piace molto dire a me come la progettazione registica o design direction, l'ingrediente o, come direbbero i semiotici, quella strana "materia dell'espressione" che è il tempo diventa protagonista. 

Si pensi all'estensione - in parte oggi ancora solo congetturale - dell'attribuzione della definizione di design al settore dei servizi dove gli artefatti sono “oggetti di scena” di un evento. E dove, se la progettazione è l'affare di competenze e technicalities manageriali, la capacità configurativa si manifesta come coreografia e come vera e propria regia.
O si pensi agli approcci olistici al design - che peraltro a volte rischiano di diventare mode concettuali, ma che qualche promessa la avanzano e qualche traccia la lasciano - come lo user centered design o l'experience design...
Di fronte a questo brulicare e ribollire - da un lato del mondo che circonda il design e dall'altro delle risposte che il design da a questi cambiamenti, c'è una tendenza un po' rinunciataria - figlia del pensiero debole - che propone di affermare che non c’è più mappa. Non ci sono più stelle polari. Una sorta di rizomatismo un po' manierato si arrende alla ovvia liquidità del pensiero e della tecnologia, invece che sforzarsi di catturare gli aspetti salienti del mondo e di cimentarsi nel descriverli e di proporne una visione, cioè proprio uno schema. Io trovo più coraggioso il gesto di costruirle o - diciamo più prudentemente - l'atto istitutivo di di ipotizzarle queste strutture che tentano di dar forma al mondo, e - perché no - di semplificarlo per renderlo, come farebbero delle maniglie, un poco più manovrabile. 

Andare nel panico di fronte all'innegabile complessità e imprendibilità del mondo e insieme contemplare con un certo affascinato compiacimento questo fallimento serve a poco.
Senza nessuna pretesa ontologista (e cioè senza la credenza un poco superstiziosa che lo schema ricalchi il mondo che descrive) e tantomeno senza voglie essenzialiste (e cioè senza farsi l'illusione che lo schema catturi l'essenza del mondo di cui si occupa) lo sforzo di avanzare una schematizzazione ripeto, perfettamente consapevole di essere una riduzione, è cruciale. La schematizzazione (accanto ad altre forme come la constatazione quantitativa, la registrazione, ecc.) è una delle forme possibili di oggettivazione. E oggettivare è ancora dire poco, perché il mettere in comune le informazioni, andrebbe piuttosto, con maggiore sottigliezza terminologica chiamato 

inter-soggettivare, se la parola non fosse un bruttissimo neologismo. E l'intersoggettività, cioè la compresenza confrontabile dei dati e la loro condivisione e la loro accessibilità da parte dei partner, è la condicio sine qua non per l'effettività se non per l'esistenza tout court di un dialogo e di una critica. Se davanti agli occhi della nostra mente non ci sono schemi, istogrammi, reperti documentali, ecc. la nostra conversazione sarà un monologo.

“In principio il design non c’era”, così potrebbe iniziare il nostro Vangelo. È a partire dall’avvento dell'Homo habilis che si sono fabbricati artefatti d’uso e certamente anche comunicativi, ma si deve arrivare alla rivoluzione industriale e alla cultura di massa, perché si affermino una serie di professioni della prassi e un certo numero di istituzioni della trasmissione del sapere che si occupano proprio di questo ambito della cultura e della cultura materiale. 

Naturalmente penso al Bauhaus, ma non solo.
Il modello disciplinare pre-moderno colto, che insiste proprio su questo medesimo ambito del mondo produttivo e comunicativo, è stato quello dell’Architectura domina che regna sulle altre discipline ancillae, in un sistema che era ancora quello delle Artes se non addirittura delle Beauxs Arts.

L'architecture règle encore mieux tous ces arts, diceva l'estetologo francese Alain ancora negli anni '20.
E si pensi, ad esempio, a quanto sia inteso come puramente strumentale il ruolo, ad esempio, del disegno.
Una nobilissima espressione di questa ideologia un poco onnivora è stato lo slogan Dal cucchiaio alla città, coniato e predicato – peraltro - da modernisti del calibro di Muthesius, Gropius, Bill e Rogers

Pronunciata però ormai nel quadro della modernità, questa massima esprime un’assunzione di responsabilità unificata nei confronti del problema della “progettazione”. Anzi, per certi versi, vi si potrebbe leggere una sorta di sinonimizzazione incompiuta dei due termini “architettura” e “design”. Ma direi che soprattutto questa frase dichiara implicitamente che è la “configurazione”, cioè la questione della responsabilità nel dar forma al mondo artificiale, il tema da affrontare in modo unitario.
Nella concretezza dei fatti, di contro, come registrerà negli anni ’60 del secolo scorso Gui Bonsiepe sulla rivista di Ulm in un famoso diagramma ad albero, la progettazione non è rimasta unitaria, si è venuta articolando in un ventaglio di discipline, che vanno dall'Urbanistica, all'Architettura, al Design del prodotto, alle Comunicazioni visive, ecc. Non c'e più una gerarchia, le discipline siedono al tavolo del progetto “da pari”.
Questo – per dirlo con un certo schematismo - proveniva con ogni probabilità dalla constatazione di quanto si era venuto affermando nel mondo delle professioni e delle produzioni, ma anche nei sistemi formativi ed educativi di tutto il mondo, a partire – per esempio - dalla diaspora Bauhausiana. I grafici creavano associazioni professionali distinte da quelle dei designer, degli architetti, degli urbanisti e pianificatori territoriali e parallelamente nascevano scuole, istituti e università per formare separatamente urbanisti, architetti, product designer, grafici. Associandosi peraltro poi in vario modo, magari secondo la formula americana delle facoltà di Art and design, oppure secondo un pensiero che potremmo definire più “politecnico” come alla Hochschule für Gestaltung di Ulm, oppure ancora facendo assorbire il design da prospettive decisamente ingegneresche e tecnologiche come avvenne col Bauhaus di Chicago da parte del MIT, ecc.
In una certa misura il panorama del moderno è quello di un ventaglio delle specializzazioni del progetto ben distinte e che rivendicano un'autonomia la quale in superficie è - per così dire - disciplinare ma che forse copre l'esigenza di un'affermazione soprattutto professionale.
 

La fase storica odierna rappresenta un momento almeno di robusta transizione se non di grande sconvolgimento. Come si diceva, oggi la sensazione è che in questa rete di nessi e di circostanze sia cambiato.
Ma che cosa sta cambiando? A rischio di apparire parzialmente ovvii e in parte di ripeterci, diciamo che la mappa di saperi e delle competenze cambia per l'irrompere - sullo sfondo del verificarsi catastrofico delle più fosche profezie maltusiane riguardanti popolazione e risorse - di questioni cruciali come: ambiente e sostenibilità, globalizzazione, new technologies e new media.
Se non proprio a un rimescolamento disciplinare siamo di fronte a un riformarsi e a un riplasmarsi delle regioni dello schema e dei loro confini.
Si pensi al caso davvero paradigmatico di quello che sta succedendo sul confine fra due nozioni o istanze, come il design e l'arte. Districare un poco questa questione potrebbe risultare per noi, che siamo una Facoltà di Design e Arti, particolarmente utile e significativo. 

Quella che contrappone arte e design è una querelle che, al momento di massima affermazione della prospettiva modernista, poteva venire spazzata via con un gesto infastidito della mano come "una questione degli anni dieci" e ci si intendeva riferire alla polemica nel Werkbund fra Muthesius progettista standardizzatore e Van de Velde artista individualista.
Anche senza farsi irretire dal punto di vista hybreed, e nemmeno facendosi sedurre da quelle "realtà di mezzo" un po' atelier sperimentale, un po' studio progettuale e un po' luogo di produzione, che sono le factories, e neppure aderendo appieno alla tradizione teorica del Bruno Munari di Arte come mestiere, mi sembra che in un contesto sociotecnico come il nostro, dove diventa prevalente "quell'elusivo territorio intermedio in cui il mondo che conosciamo e abitiamo non è sentito né come oggettivo né come inventato e arbitrario", l'idea di "entre deux", e specificamente di un'indecidibilità fra design e arte sembra proprio che si faccia un poco più plausibile. Ma la domanda che emerge è ancora più radicale: è oggi plausibile e - soprattutto - è possibile porsi e rispondere alla domanda: Che cosa è l'arte e che cosa è il design?, e Che cosa li distingue??
Quella di definire che cos'è l'arte è un impresa disperata.
A proposito dei "giochi" Wittgenstein, in un suo passo delle Ricerche filosofiche, diceva che le manifestazioni del fenomeno sono per natura tanto diverse da non ammettere quel tanto di unificazione necessaria per pervenire a una definizione se non come una vaga sensazione di "somiglianza di famiglia".


L'arte o meglio le arti non sono da meno. Vi sono, peraltro, linee e fasi della riflessione teorica, dai tratti essenzialisti e direttamente idealisti, che propongono una ipostatizzazione del concetto di arte, e pretendono di stabilire una volta per tutte che l'arte è questo o quello: intuizione pura o lirica, armonia di forma e contenuto e simili. Ma anche più di recente, c'è chi dichiara che l'arte è anzitutto comunicazione oppure che l'arte è lusso, o l'arte è espressione della bellezza, ecc...
Ad una esplorazione e ad una considerazione un poco più attenta e sensibile appare però, al contrario, quanto, a proposito del sistema delle arti, sia più prudente attenersi a una concezione profondamente mutevole in senso diacronico ma anche sincronicamente estremamente variegata. 

Banalmente: si susseguono - ad esempio - una dopo l'altra: un'arte preistorica, un'arte classica, medioevale, rinascimentale, un'arte moderna, e un arte contemporanea. E ci limitiamo qui ad utilizzare soltanto categorie storico-artistiche. Ma si dispongono l'una accanto all'altra nello spessore del presente attuale - sempre a titolo di esempio - anche un'arte normale, cioè l'arte del mercato (come potrebbe essere la neoavanguardia), contrapposta - da un lato - all'arte sperimentale o arte di ricerca (come potrebbe essere la poesia visiva, concreta e totale) e - dall'altro - a un'arte marginale, di contestazione socioculturale o arte border line (come i graffiti prima che se ne appropri il sistema museale, o come la moda di strada, prima che se ne approprino i cool hunter).
Se si tenta comunque di identificare un minimo di circostanze indispensabili per poter parlare d'arte, solo due sembrano emergere come condizioni - diciamo così - irrinunciabili: in primis, l'arte è un'attività che produce un'entità (artefatto o performance) e secondariamente emerge nettamente la questione della sua finalità, o - come vedremo - assenza di finalità. Almeno da quando vige quell'invenzione della cultura occidentale del XIX secolo che è stata la ideologia de l'art pour l'art, l'arte è infatti, nella generalità dei casi, una pratica autonoma, cioè non è fuori di sé che essa trova le proprie finalità.
Diverso è il caso del design. Non che la sua fenomenologia sia meno variata. Anche per il design si hanno molteplici definizioni istituzionali, storiche, convenzionali, funzionali, ecc., ma nella bibliografia è quasi unanime tuttora il ricorso, come punto di partenza e di riferimento per ogni aggiustamento, alla definizione formulata da Tomás Maldonado e adottata dall'ICSID (International Council of Societies of Industrial Design) nel lontano 1961. Si tratta di una definizione che vede il design prima di tutto come attività finalizzata: Il disegno industriale ha il compito di progettare la forma dei prodotti industriali e progettare la forma significa coordinare, integrare, e articolare tutti quei fattori che, in un modo o nell’altro, partecipano al processo costitutivo della forma del prodotto. E, più precisamente, si allude tanto ai fattori relativi all’uso, alla fruizione e al consumo individuale o sociale del prodotto (fattori funzionali, simbolici o culturali) quanto a quelli relativi alla sua produzione (fattori tecnico-economici, tecnico-costruttivi, tecnico-sistemici, tecnico-produttivi e tecnico-distributivi).  


Il design si caratterizza insomma in prima istanza come una pratica di configurazione, ma si tratta dell'attribuzione di una forma agli artefatti, la quale è largamente influenzata se non dominata da fattori "eteronomi". Anzi, si potrebbe quasi dire: il design è praticamente in ogni caso un'attività eteronoma.
In altre parole, sembrerebbe che ciò che i semiotici chiamano la "materia dell'espressione" sia assolutamente la medesima per il design e l'arte. Ne sono testimonianza le migrazioni da un campo all’altro come - nel caso del visual design - i manifesti serigrafici di Chéret (prima ancora di quelli di Touluse-Lautrec), che avremmo potuto trovare affissi sui muri di Parigi per poi ritrovarli esposti al museo o nelle gallerie d'arte a causa del fenomeno del collezionismo. Oppure, più di recente, nel quadro delle operazioni e delle pratiche artistiche possiamo trovare l'imballaggio funzionale e comunicativo del detersivo Brillo, disegnato da Andy Wahrol ed esposto alla Bianchini Gallery di New York nel 1964. 

Si tratta di operazioni che non cambiano una molecola della realtà artefattuale eppure realizzano un radicale cambio di statuto, come aveva insegnato Duchamp con l'Objet trouvè, o Ready Made
Quanto alla migrazione inversa, essa si presenta come un'ovvietà che viene enunciata provocatoriamente di nuovo da uno di quei Gedanken Experimente [esperimenti di pensiero], non tanto verbali quanto artefattuali che sono le opere di Duchamp, quando egli propone di usare un Rembrandt come tavola da stiro, nel Ready Made reciproco. O più semplicemente attraverso il ripristino di un uso proprio nel caso di oggetti impiegati secondo un uso artistico e cioè improprio, come ha fatto Pierre Pinoncelli a Nimes nel 1993, orinando nel ready made "Fountain" sempre di Duchamp.
Del resto, anche quando poi l'inventore della Pop Art, cioè l'inglese Reyner Banham, dichiarava a torto o a ragione, che la carrozzeria della Studebaker o dell'Alfa Giulietta sono - appunto - le manifestazioni di una grande arte popolare, egli stava comunque affermando che la sostanza della realizzazione di una forma determinata, e le eventuali regole o leggi che presiedono agli effetti configurativi, sono le medesime per ciò che chiamiamo design e ciò che chiamiamo arte.
 

Dove sta allora la differenza?
La differenza sta, come accennavamo, su un piano - potremmo forse dire - sottostante a quello artefattuale, e che un filosofo come Kant non porrebbe nella sfera - diciamo così - statica dell'ontologia ma in quella dinamica e attiva della teleologia. Se, dunque, l'arte sembra perseguire a partire dal Moderno, finalità autonome, il design sembra muovere in direzione del raggiungimento di fini eteronomi.
O, più precisamente, anche quest’ultima questione è caratterizzata da una profonda mutevolezza storica. E infatti, se pur sapendo di semplificare rudemente, possiamo dire che ad Altamira e dintorni gli artefatti costituiscono un aggregato inscindibile di istanze pragmatiche (la cattura e l'uccisione in effigie degli animali) e qualità artistica. 

Le pitture nelle caverne il loro scopritore, che si chiamava  Abbé Breuil, le dichiarava senza indugi, e accettato da tutti, "grande arte paleolitica". Se lui poteva questo, noi, con il medesimo effetto-anacronismo, possiamo dire che erano anche visual design e precisamente infodesign.
Più avanti, nelle storie affrescate sulle pareti della Cappella degli Scrovegni da Giotto, la cui "factory" produceva peraltro anche insegne di fondaci e gonfaloni per entità socioculturali di varia natura, si percepisce una cospicua spinta eteronoma. Il ciclo pittorico svolgeva esplicitamente - nel solco di quelle che venivano definite le Bibliae pauperum - il ruolo di "Vangelo per immagini" (sulla cui correttezza testuale la committenza esercitava peraltro un controllo severissimo). Ma nella maestria del pittore ecco che incomincia ad affacciarsi la consapevolezza di un ruolo e di un ingrediente artisticamente autonomo. E ancora: l’anneddottica un po’ mitizzata, che vede Michelangelo e il papa Giulio II tirarsi i barattoli di colore in testa intorno alle impalcature della Cappella Sistina, con il papa che pretende di far rispettare la lettera ortodossa del contratto, sottoscritto l'8 maggio 1508 e Michelangelo che pretende la più totale libertà raffigurativa e configurativa, ci fa assistere - per così dire - in presa diretta, al conflitto fra finalità eteronome e cioè in senso lato propagandistiche o prescrittive, portate avanti dal committente e visione dell'artista che non si sente più "traduttore" in immagini di intenzioni comunicative altrui ma autonomo autore: l’arte si sta avviando, appunto, verso l’art pour l’art.
Più avanti ancora, alla fine dell' '800 e all'inizio del '900,
si ha l'esplicitarsi e l'affermarsi, per esempio con gli Impressionisti ed i Simbolisti francesi, dell'art pour l'art e questo - da notare - avviene in coincidenza con l'affermarsi del disegno industriale. Questi esiti si possono interpretare come un segno del progressivo diversificarsi e affinarsi delle competenze nei mestieri e nelle professioni. Quello che quel sottile costruttore di definizioni e tassonomie che era Marx chiamava la "divisione del lavoro". 

È meno ovvio e anzi assume invece quasi il carattere di un'aporia il fatto che alla dichiarazione della più esplicita autonomia corrisponda l'affermarsi universale del mercato dell’arte, al quale si affiancherà poi la rete dei musei. 
Ma questo potrebbe essere il tema di un altro ulteriore saggio.

giovedì 5 aprile 2012

L'arte non è, diventa
di Antonio Barrese


A giudicare dall’immensa quantità di manufatti artistici dai quali si è circondati, sembra che esistano, sparsi nel territorio, vastissimi magazzini che conservano, a futuro uso, quantità immense di manufatti artistici preconfezionati.
Si può immaginare che vi si approvvigioni un numero sempre maggiore di artisti. Numero recentemente accresciutosi a causa della crisi economica che ha prodotto un grande numero di disoccupati che cercano di trasformare in fonte di reddito quella che fino a qualche tempo fa era solo un’aspirazione.
Sembra che a questi artisti basti recarsi in questi magazzini – che erogano gratuitamente la merce che contengono – e fare incetta di quadri, quadretti, sculture, contenuti lacrimevoli o protestatari (fa lo stesso), imitazioni, affari incomprensibili (tanto meno hanno senso tanto più possono essere spacciati per cose d’arte).
Alcuni studenti del Politecnico di Design di Milano, durante gli anni del mio insegnamento, si lamentavano che io non indicassi loro i titoli dei libri in cui avrebbero potuto trovare i progetti, quasi che i progetti esistano prima delle situazioni che li rendono necessari, e prima che qualcuno li abbia sviluppati.
L'arte invece no. L'arte secondo questi "artisti", è definibile, codificata, tratta del bello, deve emozionare – e i più furbi sanno bene, non senza un certo cinismo, quali corde toccare per sollecitare l'emotività del prossimo –  deve esplicitare chiaramente un contenuto (meglio se forte, secondo la definizione che di questo aggettivo fornisce il gossip),  deve potersi fare senza fatica, potendo prescindere da un bagaglio di conoscenze immenso, in modo a-metodico, seguendo impulsi ed estri.
Ogni tanto questi artisti si dedicano a ripulire e a levigare le opere che hanno prelevato nei magazzini, e subito dopo le espongono, in uno dei tanti spazi che la fine dell’industria ha reso disponibili. Spazi che Assessori, Comitati e docenti in cerca di prestigio, hanno trasformato in Gallerie comunali o in circoli o in luoghi di aperitivi d’arte (così risolvendo anche il problema della frustrazione di massa).
Questi luoghi diventano le Sale Fitness in cui dentisti, professionisti, velleitari, aspiranti, sedicenti e via enumerando,  compiono i necessari esercizi spirituali che li qualifichino e li abilitino a far parte di quella che considerano un'élite di privilegiati che discettano di Arte, che si vantano di essere stati presenti a un vernissage.
Non saprei definire cosa sia tutto ciò, ma credo che poco o nulla abbia a che fare davvero con l'Arte.
Forse è solo un riempitivo di uno spazio di vita che la fine del lavoro ha svuotato, un tentativo di occupare il tempo in un modo che si presume smagliante e prestigioso.
Non saprei, davvero.
So però da dove venga il desiderio di essere artista, ma preferisco non dirlo perché alcune verità non devono essere svelate.

Il problema è che l’arte, prima di essere fatta e dichiarata tale, non esiste.
L’arte è il frutto di una ricerca scientifica, tecnologica, culturale che alcune persone decidono diventi arte, che sia riconosciuta come tale.
L’arte non assomiglia a nulla di ciò che ci circonda.
È un manufatto di tale complessità strutturale, linguistica, innovativa ed espressiva che, una volta resa pubblica, non può che imporsi.
L’arte non ha nulla a che fare con tutto ciò che può essere definito, perché l’arte (il prodotto artistico, l’opera) inaugura nuovi linguaggi e formula un nuovo sistema di valori.
L’arte non esiste prima dell’artista, così come l’artista non esiste prima dell’opera.
I magazzini presso cui si rifornisco gli artisti, quindi, sono depositi del kitsch entro cui il Sistema della Merce ci ha condannato (ricordo che Merce e Merda hanno un etimo comune, e non è un caso).
L’arte si impone.
Marcel Duchamp, nel secolo scorso, lo ha stigmatizzato trasformando un orinatoio in un’opera d’arte, semplicemente decidendo che lo fosse, ed esponendola in un luogo preposto (galleria d’arte o museo, non ricordo).
Pensiamo anche, per cose più recenti, all’imposizione mass-mediatica del Design di Alchimia. Oppure, al giorno d’oggi, a un fenomeno mediatico come Karim Rashid… queste cose lasciano traccia, lentamente diventano, alla fine esse sono l’arte del periodo. Tutte cose di cui si potrebbe dire "Chi l'avrebbe detto!", rese autorevoli e paradigmatiche del Linguaggio del Tempo (cioè dell'Arte) dall'insistenza mediatica e dall'energia propositiva dei Gruppi e delle Correnti.
Non è necessario indignarsi: l’indignazione è il destino di chi, in fondo, rinuncia.
Non  serve neppure lamentarsi dicendo "una volta queste cose non accadevano".
Sono sempre accadute e gli artisti sono sempre diventati tali perché qualcuno o qualcosa li ha imposti e ha deciso che loro e le loro opere fossero Arte. 
I Sistemi di Valori, e tra essi l’Arte, sono uno degli aspetti del Potere.

Il Principio di Peter non vale per l'Arte
Il "Principio di Peter" (Il principio di Peter, Peter Laurence J – Hull Raymond, Bompiani, 1970) è un libro che tratta del Principio di incompetenza.
– In ogni gerarchia, un dipendente tende a salire fino al proprio livello di incompetenza.
– Con il tempo ogni posizione lavorativa tende ad essere occupata da un impiegato incompetente per i compiti che deve svolgere.
– Tutto il lavoro viene svolto da quegli impiegati che non hanno ancora raggiunto il proprio livello di incompetenza.
Il principio è un caso speciale della generalizzazione:
Ogni cosa che funziona per un particolare compito verrà utilizzata per compiti sempre più difficili, fino a che si romperà.
Sono cose drammaticamente vere: chiunque abbia lavorato nelle aziende ha potuto sperimentarlo.
È una circostanza che si vorrebbe superare, ma credo che al momento sia impossibile, se non altro perché ricalca la logica della crescita illimitata, del PIL senza limite di sviluppo, dell’idea di crescita infinita del capitale…
Insomma l’incompetenza è parte indistinguibile del Mercato, della Merce e del paradigma di sviluppo capitalistico.
Per superare il destino di incompetenza del nostro sistema, occorrerebbe abbracciare incondizionatamente la logica della decrescita.
Il Principio di Peter, però, non vale per l’arte.
Arte significa ricerca, sperimentazione, esplorazione di territori vergini e ignoti, tentativo di modellizzare l’ignoto – tramite la Forma – e di offrire i paradigmi per un mondo che ancora non c’è.
Gli artisti, insomma, sono Peter, e il loro lavoro si sviluppa in un contesto di incompetenza strutturale.
Gli artisti sono innovatori permanenti.
Il lavoro artistico, cioè, identifica il suo divenire nell’ignoto, in ciò che ancora non si conosce e nei confronti del quale ancora non si sa né come comportarsi, né quali esiti possa avere.
Capita che alcuni ex artisti preferiscano superare i disagi della ricerca, e allora si dedicano a perfezionare e a riproporre ossessivamente le loro opere.
Costoro mercificano il loro lavoro, diventando burocrati del mercato dell’arte.

L’arte è la scienza del mondo interno, la scienza è l’arte del mondo esterno
È stato più facile ideare la frase del titolo, questa inversione di soggetto e di oggetto che si riscontra nelle due righe – con le conseguenze che ne derivano – che provare a darne una spiegazione.
La spiegazione sarebbe lunghissima e, temo, noiosissima.
In qualche modo coinvolgerebbe l’intera cultura del XIX e del XX secolo, e forse anche quella precedente.
Me la sbrigo, perlomeno tra me e me, ricordando un piccolo aforisma che avevo scritto qualche tempo fa: “I poeti sintetizzano in poche parole ciò che ai filosofi ingombra numerosi volumi”.
Non che le due righe del titolo ambiscano ad un qualche valore poetico, beninteso.
Mi sembrano però abbastanza efficaci.
In esse l’arte diventa la scienza, e la scienza si identifica con l’arte.
Ciò che cambia sono solo i territori in cui esse operano: il mondo interno ed il mondo esterno.
Ma, ad andare in fondo alla riflessione, il mondo interno è il contenitore delle esperienze, il luogo che illumina l’esterno e la proiezione di quest’ultimo dentro di noi: una caverna platonica entro cui si proiettano ombre e, al contempo, il proiettore che le rimanda verso l’esterno.
Il mondo esterno, la Natura, esiste solo perché lo pensiamo.
E allora non esiste differenza neppure tra questi due mondi a cui l’Arte e la Scienza danno corpo, di cui l’Arte e la Scienza danno forma.
Ecco allora che l’unica cosa che esiste è la Forma…

Progettare di più per produrre di meno (e meglio)
È da anni che lo scrivo, credo dal 1983.
Del resto i problemi ambientali non sono cosa recente.
Nell'anno mille, in Europa, le foreste erano incredibilmente sfruttate e gli alberi tagliati prima che potessero crescere, per farne legna da ardere, abitazioni, navi.
Erano diventati rarissimi alberi di altezza superiore ai 20 metri, necessari a supportare la costruzione di archi e cupole romaniche.
Per questo – alcuni sostengono – si inventò un modo di voltare archi e cupole che non avesse bisogno di supporti e incastellature che partivano da terra.
Nacque così l’architettura gotica.
Che il freon liberato dagli spray salisse in quota a perforare lo strato di ozono, si sa dagli anni sessanta.
Nel 1968 il documento conclusivo del Congresso Mondiale di Sociologia scriveva: “Il capitalismo si è sviluppato distruggendo il pianeta, adesso può continuare a svilupparsi salvandolo”.
Insomma, l’attenzione all’ecologia e all’ambiente non è una novità, anche se adesso se ne prende coscienza. Lo impone la crisi.
Questo è un momento di straordinaria potenza: il mondo attende di essere riprogettato dalle fondamenta.
Naturalmente non è sufficiente il design che per decenni si è occupato di arredamento e di superfetare varianti di varianti di varianti di mobili poltrone sofà posate eccetera.
Occorre un approccio completamente diverso. Occorre che tra design e arte non vi sia separazione, ma che si fondano in un’unità.
Occorre progettare di più e occorre riformulare il senso del progetto attraverso l'arte.
L’arte è necessaria al progetto perché è essa che indica le strade, dà forma alle visioni e rende possibile il determinarsi di paradigmi culturali e comportamentali.
Produrre di meno significa che i prodotti devono avere una vita più lunga (un ciclo di vita non semplicemente dilatato ma radicato nel tempo e nello spazio).  Il loro sistema morfologico e prestazionale può essere più ricco, le loro dimensioni linguistiche durature, mitiche, capaci di aprire vasti spazi interpretativi. I prodotti, gli oggetti che ci circondano e che partecipano della nostra quotidianità, devono essere fatti nel modo migliore, nel modo più giusto. Devono confrontarsi con l'Arte, intesa come esempio più alto e sintetico della qualità del lavoro e della forma.